martedì 26 novembre 2024

They fly at Çiron

They fly at Çiron è un romanzo di Samuel Delany, pubblicato nel 1993.

È un testo con una lunga e storia di stesura.

La prima versione di They Fly At Çiron era un racconto lungo scritto nel 1962 che Delany non riuscì a pubblicare. Nel 1969 Delany diede il testo a James Salis che ne riscrisse l’inizio. Il testo uscì nel 1971 su The Magazine of Fantasy and Science Fiction con la firma di entrambi.

Nel 1991 Delany riscrisse la storia eliminando le parti aggiunte da Salis e aggiungendo nuovi personaggi. Il testo è uscito nel 1993 per la casa editrice Incunabula.

La storia inizia con il crudele Principe Nactor di Myetra che si appresta a invadere il villaggio di Çiron. Gli abitanti di Çiron sono agricoltori pacifisti che non possiedono le parole per definire “arma”, “guerra” o “arrendersi”. Sono troppo ingenui per temere qualcuno, tranne i misteriosi uomini Alati che abitano a Hi-Vator in cima alla montagna che sovrasta Çiron.

I personaggi principali sono Kire, un ufficiale di Nactor mandato in avanscoperta, e Rahm, un giovane Çironiano che ritorna da un viaggio rituale. Naä è una cantante e poetessa di Calvicon che si trova ospite dei Çironiani.

L’esercito myetrano attacca falciando gli ingenui Çironiani. Rahm, vedendo la sua compaesana Rimgia vittima di violenza semplicemente impazzisce e fa una strage di nemici, per poi scappare e trovare rifugio presso gli Alati.

Quando ritorna per aiutare Çiron viene catturato e obbligato a uccidere Kire (condannato per ribellione). Invece di Kire, Rahm uccide Nactor mentre l’esercito di Alati mette in fuga i nemici,

Çiron è una storia fantasy (ma che si comporta come una storia di fantascienza) con un protagonista che ricorda fisicamente il Conan di Howard. Delany ha sempre avuto chiare idee sulle differenze tra fantasy e fantascienza: “sword and sorcery represents what can still be imagined about the transition between a barter economy and a money economy, while science fiction represents what can be most safely imagined about the transition from a money economy to a credit economy”

Non per niente il romanza contiene il racconto di come la moneta sia stata adottata dagli Alati – ma qui c’è un twist, visto che alla fine sono ritornati al baratto. Non è interamente un’opera fantasy – i myetrani hanno armi laser e luci al neon.

Kire e Rahm non sono i soli personaggi dei quali seguiamo le vicende. Uno dei punti di vista è quello di Uk, veterano dell’esercito myetrano, attraverso i cui occhi (sorpresi e spaventati) vediamo la furia omicida di Rahm. Altro punto di vista è quello di Qualt, il ragazzo che si occupa di raccogliere e smaltire l’immondizia del villaggio. È l’intellettuale della storia, raccoglie non solo immondizia ma informazioni, e rotoli di scrittura accumulati nella storia di Çiron.

La narrazione si muove non tanto in maniera lineare quanto saltando dalla coscienza di un personaggio all’altro proponendo anche lo stesso evento o personaggio da vari punti di vista. La cosa viene quasi discussa a un certo punto: Naä racconta a Rimigia di una credenza secondo la quale ogni vita sarebbe una specie di libro del quale un Dio legge brani sparsi.

Identità e linguaggio: dare un nome alle cose viene visto come primo passo per dare loro un’identità. O, come scrisse Kathy Acker: “un nome non ti dice cosa sia qualcosa, ma piuttosto connette il fenomeno/idea a qualcos’altro. Certamente alla cultura”.

Non per niente il conquistatore Nactor dice al prigioniero Rahm: “Io sono il Principe Nactor. Non voglio sapere il tuo nome”.

mercoledì 25 settembre 2024

Un po' di gloria disperata


"Vorrei tre volte trovarmi in battaglia piuttosto che partorire"
Medea di Euripide

Some Desperate Glory di Emily Tesh è stato il vincitore del Premio Hugo 2024 come miglior romanzo.

Si tratta di una space opera che prende il proprio titolo dalla poesia di Wilfred Owen sulla prima guerra mondiale “Dulce et decorum est”:

Se tu potessi sentire, per ogni colpo, il sangue
uscire sgorgando dai polmoni rovinati dalla schiuma
Ripugnante come un cancro, amaro come il bolo
delle vili, incurabili piaghe su lingue d'innocenti,—
Amico mio, tu non racconteresti con un simile entusiasmo
ai bambini ardenti per un po' di gloria disperata,
l'antica Menzogna: Dulce et decorum est
Pro patria mori.

La storia inizia con la distruzione della Terra da parte di una confederazioni di alieni, i majoda. I pochi superstiti fondano Gaea, l’ultima colonia umana, con l’intento di ri-accrescere le forze umane e vendicare il genocidio.

Quella di Gaea è una società gestita dai militari e orientata alla guerra. I giovani sono cresciuti come soldati, preparati per andare a morire combattendo gli alieni.

La protagonista Valkyr (detta Kyr) è la guerriera più brava e più esaltata. Spera di essere mandata a combattere ma invece le viene assegnato il lavoro di Nursery, che consiste nell’essere continuamente messe incinta per partorire schiere di futuri soldati e accrescere le forze di Gaea.

A Kyr questo non va bene: per quanto capisca la necessità di garantire un elevato numero di nascite e quindi di tenere tutte le donne sane continuamente incinte, non approva però che tocchi a lei, che si sente attratta dalla gloria e dal martirio. Fugge quindi da Gaea con l’aiuto di una genio disadattato e di un alieno prigioniero, andando a cercare suo fratello che era stato mandato ad eseguire attentati contro i traditori umani che vivevano nella confederazione aliena.

Qua inizia il lungo percorso di disintossicazione di Kyr – Gaea infatti non è l’ultimo bastione dell’umanità ma una via di mezzo tra la Corea del Nord galattica e i giapponesi che dopo la seconda guerra mondiale continuavano a combattere nella giungla. E Kyr è una bulla fascistona odiata anche dai suoi compagni fascistoni. È crudele, omofobica, razzista e c’è ben poco di apprezzabile in lei. Eppure ci si affeziona, o meglio ci si affeziona al cuore del personaggio che cerca di emergere.

Ho saputo di molti lettori che hanno abbandonato la lettura del libro perché non sopportavano il personaggio – ci sarebbe da fare una lunga riflessione sul fatto che una fetta consistente di lettori rifiuta che il protagonista incarni (anche solo all’inizio) valori negativi. Incredibilmente Kyr stessa giunge a manifestare più tolleranza quando (SPOILER) decide di salvare tutti gli abitanti di Gaea, anche quelli più fascistoni, sperando di redimerli.

La società di Gaea è modellata su quella dell’antica Sparta, ma non quella idealizzata che va di moda in certi ambienti, ma quella reale, che faceva il lavaggio del cervello ai suoi giovani ed era estremamente razzista e classista. Il sistema di addestramento di realtà virtuale usato su Gaea si chiama agoghè esattamente come il duro addestramento degli spartani. Il termine veniva usato anche per indicare l’allevamento del bestiame, tanto per far capire il tipo di trattamento e come erano visti i giovani che vi si sottoponevano.

Some Desperate Glory non si limita a essere il percorso di “deprogramming” di Kyr dal culto di Gaea, ma usando tecnologia aliena Kyr visita un universo parallelo nel quale la Terra non è stata distrutta ma domina la Galassia, preparandosi al genocidio di quasi tutte le specie aliene. Per quanto in questa versione della storia Kyr sia uno stimato ufficiale delle forze imperiali e possa avere relazioni con chi le piace, riconosce che si tratta bene o male dello stesso regime fascista che governava Gaea – questo perché creato dalle stesse persone che hanno portato alla distruzione della Terra e alla costituzione di Gaea.

Tra i difetti segnalo invece il ricorso eccessivo al Deus Ex Machina per salvare la protagonista almeno due volte e la visione macchiettistica dei gerarchi che dominano Gaea. Anche se il male è banale gli esseri umani non lo sono e mentre si intuiscono diversi aspetto della personalità di Jole (il leader supremo e fondatore di Gaea), quest’ultimo non riesce ad andare oltre l’essere cattivo per essere cattivo.

Da leggere se vi sono piaciuti il Ciclo dei Vor e quello di Locked Tomb, e se NON vi è piaciuto Ender’s Game.

martedì 10 settembre 2024

Atlantis: Three Tales

Atlantis: Three Tales è una raccolta di tre testi scritti da Samuel Delany tra la fine degli anni 80 e primi anni 90. Il libro è stato pubblicato nel 1995 dalla Incunabula, una piccola casa editrice che dalla sua fondazione nel 1992 fino a oggi ha al suo attivo solo cinque pubblicazioni. Oltre a Atlantis ha pubblicato anche They Fly at Çyron di Delany.

"Atlantis: Model 1924" racconta dell’arrivo a New York nel 1923 di Sam, personaggio modellato sul padre dell’autore. Sam, diciassettenne di colore, si trasferisce da Raleigh (North Carolina) a New York dove già abitano e lavorano alcuni suoi fratelli e sorelle. Le sue due sorelle, Corey e Elsie, sono modellate su due celebri zie di Samuel Delany, Sarah Louise Delany e Annie Elizabeth Delany, pioniere dei diritti civili, la cui storia è narrata in Having Our Say: The Delany Sisters' First 100 Years di Amy Hill Hearth.

Sam ha nella Grande Mela numerosi incontri, e molte tematiche sono toccate: razzismo, identità, arte, etc… L’incontro più importante avviene mentre attraversa a piedi il Brooklyn Bridge e incontra un vecchio poeta (forse l’autore stesso), che gli racconta di un famoso poeta di colore, Jean Toomer. L’anziano tenta di rimorchiare Sam cantandogli come New York, come qualsiasi altra città, nella memoria diventi simile ad Atlantide… ma Sam impiega un po’ troppo tempo per accorgersi delle attenzioni dell’altro e commette un paio di gaffe, che mal interpretate dall’altro lo mettono in fuga. Alla fine della storia tutti i vari punti, le tematiche e i personaggi collimano in un singolo momento di epifania per Sam.

“Forget a city in which you've once lived, and it might as well have fallen into the sea”

"Eric, Gwen, and D. H. Lawrence's Esthetic of Unrectified Feeling" è un testo autobiografico (o per meglio dire più autobiografico, visto che la distinzione tra biografia e finzione diviene sfumata), dove Delany narra le basi della sua estetica, riportandole all’incontro che ebbe a dieci anni (negli anni 50) con due persone. La prima è Eric, lattaio, che portandolo a fare un giro di ritiri dalle fattorie locali lo espose a una colorita sequenza di parolacce e bestemmie, che Sam, trova incredibilmente eccitanti. La seconda è Gwen, sua insegnante d’arte, che gli inculcò l’idea formalista che la pittura fosse basata su “Forma, linea e colore”. Entrambe queste esperienze formano i gusti artistici e sessuali di Sam.

"Citre et Trans" è ambientato negli anni 60 in Grecia, dove Delany incontrò altri turisti e viaggiatori americani o inglesi ed ebbe diverse relazioni. È forse il più cupo dei tre testi, visto che riguarda prima uno stupro subito da Sam da parte di due marinai e poi l’uccisione di un cane da parte della sua padrona, che non voleva abbandonarlo in Grecia ai maltrattamenti dei locali.

Non c’è molta azione in questi racconti, il vero focus sono i cambiamenti che avvengono nella mente dei protagonisti, i vari Sam che sono fasi della vita e parti dell’autore Delany. La scrittura è sperimentale, con la suddivisione della narrazione in colonne parallele, note a margine, surrealismo e flusso di coscienza, tutti messi in opera per segnare l’interdipendenza tra memora, esperienza e il sé.

Delany ha scritto che Atlantis: Three Tales “is about (among other things) history, or more accurately the illusions we can have about history, especially when we have done lots and lots of research—which, when writing fiction, can never be enough…”

“Now, me . . . I’m going to originate everywhere…from now on. I’ve made up my mind to it and I’ll go on originating, all through my life, too…Every time I read a new book, every time I hear something new about history, every time I make a new friend, see a new color in the oil slicked over a puddle in the mud, a new origin joins me to make me what I am to be — what I’m always becoming. The whole of my life is origin — nowhere and everywhere.”

Le immagini che Delany usa in questi tre testi sono ispirate a due poemi: "Middle Passage" di Robert Hayden (che narra l’attraversata dell’Atlantico da parte di una nave di schiavi) e "The Bridge" Hart Crane, dedicato al Ponte di Brooklyn.

giovedì 5 settembre 2024

Orlanda Furiosa finalista al Premio Kipple 2024

 Copio e incollo da blog di Kipple:

Parecchi autori quest’anno hanno partecipato al Premio Kipple riservato ai racconti e romanzi di genere fantastico, con predilezione per il weird, la fantascienza e altri sottogeneri; sono giunte in redazione molte narrazioni di alta qualità e infatti, molti sono i finalisti che la giuria ha deciso di scegliere, donandogli un prestigioso riconoscimento. Le opere sono:

 

Romanzi finalisti in ordine alfabetico

  • Error Code 3, di Taylor Blackfyre
  • Mediterraneo terminale, di Matt Briar
  • Marionette, di Giuliano Cannoletta
  • Orlanda furiosa, di Lorenzo Davia
  • La mirabolante avventura di Guglielmo Marconi, di Francesco Di Gangi
  • Falange dei sogni, di Damiano Lotto
  • Spicchio di Terra, di Alessandro Montoro
  • Hibakusha, di Marco Palone
  • La variabile Heisenberg, di Pierfrancesco Prosperi

Racconti finalisti in ordine alfabetico

  • Inferno eterno, di Umberto Sergio Bertani
  • Deriva immobile, di Davide Camparsi
  • Egemonia, di Marco Palone
  • L’avvenire dura per sempre, di Franco Ricciardiello
  • Harmonia, di Stefano Spataro
  • Cavie disumane, di Paola Viezzi
Kipple Officina Libraria desidera ringraziare e congratularsi con i bravissimi finalisti e, in modo più esteso, con i partecipanti al Premio che hanno contribuito a elevare ancor di più il livello qualitativo del contest; l’appuntamento pe

lunedì 29 luglio 2024

Novità di luglio


Barbenheimer è il mio racconto presente nell’antologia Macchine, IA e Robot, speciale di Urania evoluzione del Millemondi dedicato agli autori italiani.

Vi ricordate di sicuro del meme di Barbenheimer nato dall’uscita nelle sale cinematografiche nello stesso giorno nelle pellicole Barbie e Oppenheimer. Due film completamente diversi ma che hanno generato questo cortocircuito mentale e memetico.

L’idea mi ha affascinato e ho pensato, perché non scriverlo veramente?

Sono partito da due semplici elementi – le bambole di plastica Barbie e Oppenheimer, lo scienziato incaricato di costruire la bomba atomica. Sono partito con poco, senza alcuna chiara idea di dove andare a finire. Non sapevo neanche che avrei parlato di IA, ma è in quella direzione che la storia, e i personaggi, mi hanno portato.

Sono molto felice di partecipare a questa iniziativa del meglio della fantascienza italiana secondo Urania con un racconto dalle origini così particolari, assieme agli altri autori



S/Confinati, antologia che ho curato assieme a Simonetta Olivo. Il tema di questa antologia è il Confine, inteso in senso fisico e mentale, concetto esplorato con gli strumenti della narrativa fantastica.

Simonetta e io abbiamo scelto un’impostazione particolare. Metà dei racconti presenti nel volume sono stati scritti da autori triestini – sui quali ha pesato la storia di Trieste come città di confine tra più mondi e periodi storici.

Scrittrici e scrittori triestini appartengono al gruppo FantaTrieste, molti probabilmente già li conoscete, e sono Simonetta Olivo, Fabio Aloisio, Fabio Calabrese, Roberto Furlani e Zeno Saracino.

L’altra metà dei racconti è scritta da autrici e autori provenienti da paesi con i quali Trieste stessa ha avuto relazioni storiche, culturali, ideologiche e linguistiche nel corso della sua storia: Marco Apollonio (Slovenia), Arben Dedja (Albania), Katharina Köller (Austria), Veronika Santo (Croazia), Jasmina Tešanović (Serbia).

Traduzioni a cura di Alice Cimador, Agnese La Porta e Maria Teresa Petrigliano.



È uscita Hallucigenia: Antologia di fantasy surrealista e psichedelico, a cura di Andrea Berneschi e Michele Borgogni, che hanno riunito un gruppo di allucinati e allucinanti autori per avere dei racconti fantasy al di là dell’inimmaginabile.

Io sono presente con il racconto “La Storia della Guida” dove riprendo il personaggio di Butros, già protagonista della mia antologia Incubi dalle Sabbie (ed. Delos).

È forse il racconto più GeneWolfiano e Borgesiano che abbia mai scritto, dove il misticismo Sufi si unisce all’Effetto Droste di storie narrate nella migliore tradizione araba – è una sfida per il lettore a raccogliere tutti gli indizi e cercare di ricostruire la storia.

Lo potete acquistare qua.

Per chi fosse interessato agli altri miei racconti arabi.

lunedì 15 luglio 2024

Vittorie più grandi della morte

Victories Greater Than Death è un romanzo Young Adult della scrittrice Charlie Jane Anders, primo della trilogia Unstoppable (tuttora non tradotta in italiano).

Tina appare come una teenager umana, ma in realtà è il clone alieno (modificato geneticamente per somigliare ai terrestri) della più famosa e capace Capitano della Royal Navy (una specie di Flotta Stellare composta da alieni di varie specie), Thaoh Argentian.

Conserva i ricordi del Capitano e cresce fino all’adolescenza nell’attesa di venire prelevata e avere i propri ricordi ripristinati.

Purtroppo le cose non vanno previsto, e Tina si trova ad avere le conoscenze di Argentian ma non i ricordi. In più si trova con altri cinque adolescenti terrestri arruolati su una astronave da guerra aliena in fuga dal cattivo Marrat, amico prima e nemico poi di Argentian.

Marrat è il classico cattivo perché cattivo – alla fratellanza e ai valori di apertura e inclusione della Royal Navy preferisce seguire idee fascisteggianti e discriminatorie: egli segue il gruppo Compassione che (a dispetto del nome) si propone di sterminare tutti gli esseri che non abbiano forma umanoide. Nonostante sia abbastanza piatto, possiede un’arma originale e veramente terribile i cui effetti sono ben descritti dall’autrice. E sono effetti (oltre alla morte della persona) che fanno veramente paura.

Ho trovato divertente come anche gli alieni più… alieni e lontani dall’umano introducano se stessi dicendo “Mi chiamo (ad.es.) Cthulhu e il mio pronome è lui/lei/loro”, non perché ci sia qualcosa di sbagliato ma perché mi è difficile associare distinzioni di genere umane a creature extraterrestri. Ma d’altra parte essendo biologie aliene è ovvio che non si possano distinguere subito i generi, e spesso il concetto di genere non è neanche applicabile. Questo viene ben spiegato nel testo: tutti quanti dispongono di un EasySpeak che traduce i linguaggi alieni adattandoli alla lingua e modo di pensare dell’utente, quindi quelle che sarebbero altre differenze grammaticali (tipo, mi invento al momento, avere due generi per chi mette l’ananas sulla pizza e chi non lo fa) vengono tradotte come differenze di genere per Tina.

In generale il comportamento dei personaggi (almeno quelli buoni) è all’insegna del più totale politicamente corretto o, come preferisco chiamarlo io, educazione e buon senso. Si usano i pronomi corretti, non si tocca una persona senza il suo consenso, vengono dati spazi di isolamento per gli introversi e così via.

Tina sa quello che vorrebbe essere, ovvero il grande Capitano che tutti si aspettano, ma è una identità alla quale al momento non può accedere. Fa quello che può per dare il meglio con le conoscenze di Thaoh Argentian, vivendo una continua tensione tra quello che sembra destinata a essere e quello che è. Ha amici (umani) a bordo ai quali tiene e con i quali sperimenta i primi amori e le prime sconfitte e delusioni.

giovedì 20 giugno 2024

The Motion of Light in Water

The Motion of Light in Water: Sex and Science Fiction Writing in the East Village è l’autobiografia scritta da Samuel Delany e pubblicata nel 1988, riguardante i suoi primi 23 anni di vita, con particolare dettaglio per gli anni ’60.

Apprendiamo delle scuole e campi estivi frequentati (e le prime esperienze sessuali), la conoscenza con la poetessa Marilyn Hacker e il loro matrimonio aperto (Delany che andava a rimorchiare altri uomini con cui fare sesso) e illegale (illegale a New York, dovettero cambiare stato per potersi sposare, essendo lui di colore e lei bianca); l’inizio della sua carriera come scrittore di fantascienza (si arriva fino alla stesura di The Star Pit); il ricovero in ospedale psichiatrico a causa degi attacchi di panico in metropolitana; il suo viaggio in autostop fino in Texas dove ha lavorato come pescatore di gamberetti (l’idea era di fare esperienza per descrivere meglio l’equipaggio dell’astronave di Babel-17); la relazione a tre tra lui, sua moglie e Bob (un tizio letteralmente trovato sul marciapiede).

È un memoir scritto con la coscienza di non poter (e voler) essere completo e corretto. La prima parte è dedicata a studiare una frase che Delany ha detto a tutti per decenni, ovvero

“My father died of lung cancer in 1958 when I was seventeen.”

La frase, come lui stesso spiega, è cronologicamente sbagliata (suo padre non è morto nel 1958 ma nel 1961 e lui non aveva 17 anni quando è successo). La memoria non è quello che è successo, ma come gli sembra vero che sia accaduto, la sensazione che gli ha dato. La narrazione di The Motion non è lineare. Si fanno salti avanti e indietro, alcuni eventi vengono narrati da più punti di vista – sempre dal punto di vista di Delany, ma di volta in volta del Delany-studente, Delany-omosessuale, Delany-scrittore etc... Come scritto da un altro recensore, sembra che l’autore si sia svuotato la testa come una tasca dei pantaloni e prendendo un oggetto alla volta tenti di ricostruire un puzzle – senza nemmeno essere sicuri che il puzzle ci sia. Più volta si mette in guardi del trasformare la propria vita in una storia (so che a questo punto avrebbe senso che succeda questo e quest’altro, invece etc…)

Il sesso è esplicito, Delany affronta la cosa (nella vita come nello scritto) con la massima apertura e onestà. Non turba perché c’è o è omosessuale, ma per la facilità con la quale lo si trova, nella New York degli anni 60. Delany dimostra come gli bastasse uscire di casa (abitava nel Lower East Side) ed entro un quarto d’ora conosceva qualcuno con cui fare sesso. Per non dire della promiscuità (possibile solo prima dell’AIDS). Si imparano tutti i posti nascosti dove due uomini potevano incontrarsi e fare sesso all’epoca.

Le esplorazioni sessuali non vengono raccontate solo per il gusto di farlo, ma sono fortemente connesse con l’esplorazione della struttura sociale, sessuale e razziale degli Stati Uniti. Il sesso è una lente di ingrandimento che Delany usa per investigare la società americana.

"Whether male, female, working or middle class, the first direct sense of political power comes from apprehension of massed bodies. That I'd felt it and was frightened by it means that others had felt it too. The myth said we, as isolated perverts, were only beings of desire, manifestations of the subject (yes, gone awry, turned from it's true object, but for all that, even more purely subjective)"

Come tale The Motion… è un testo fortemente politico (viene proposto come lettura nei corsi di Gender Studies e simili). In ospedale durante una sessione di gruppo, Delany confessa di essere gay, e per farlo usa il linguaggio socialmente accettato dell’epoca per farlo, in tono vergognoso, chiedendo scusa e promettendo che sarebbe guarito.


Solo dopo essere tornato a casa si rende conto che ha usato il linguaggio di altri per condannare qualcosa in cui vedeva niente di male. L’esplorazione della sessualità e della società vanno quindi per Delany di pari passo con quella del linguaggio.

“When you talk about something openly for the first time—and that, certainly, was the first time I’d talked to a public group about being gay—for better or worse, you use the public language you’ve been given. It’s only later, alone in the night, that maybe, if you’re a writer, you ask yourself how closely that language reflects your experience. And that night I realized that language had done nothing but betray me.”

giovedì 16 maggio 2024

Novità: Black Sabbath

Cosa accomuna il candidato delle elezioni americane del 1968 Richard Nixon, un club di motociclisti, una comune di hippie newyorkesi, il dipartimento di antropologia di una piccola università del New England e Robert, che cerca sua sorella Susan?

Lo scoprirete in questa storia ispirata alla canzone Black Sabbath dell’omonima band, in uscita domani su Delos Store

USA, 1968. In una comune newyorkese, si presenta Robert, sulle tracce di sua sorella Susan. È il punto d’inizio di un lisergico on the road attraverso gli States, tra citazioni reali e attente della cultura e della società americane del tempo e squisite osmosi weird. Perché, nel cercare Susan disperatamente, incontreremo personaggi ed eventi a dir poco imprevedibili!

https://www.amazon.it/Black-Sabbath.../dp/B0D3WXHNF8/

https://www.delosstore.it/ebook/55334/black-sabbath/

lunedì 13 maggio 2024

Return to Nevèrÿon: il gran finale

Return to Nevèrÿon è il quarto e ultimo volume dell’omonima serie di romanzi fantasy scritta da Samuel Delany. Il volume è stato pubblicato per la prima volta col titolo “The Bridge of Lost Desire” dalla casa editrice Arbor nel 1987. Il titolo cercava di nascondere i riferimenti più evidenti (almeno in copertina) al resto della serie, dato che la casa editrice dei tre libri precedenti, la Bantam Books, aveva deciso di non pubblicare più Delany dopo che nel volume Flight from Nevèrÿon aveva scritto in maniera esplicita del tema dell’AIDS ("The Tale of Plagues and Carnivals, or, Some Informal Remarks toward the Modular Calculus, Part Five").


In questo volume troviamo le tre storie finali e un’appendice.

In "The Game of Time and Pain" incontriamo di nuovo Gorgik, protagonista e/o comparsa di numerosi racconti precedenti. Qua lo incontriamo ormai quasi cinquantenne, scafato ministro della Principessa Ynelgo. Viaggiando per andare al funerale del suo nemico politico Lord Krodar, incontra un giovane barbaro e gli racconta alcuni fatti della sua vita, di come sia diventato schiavo, delle sue esperienze in schiavitù e di come una volta liberato sia diventato un ribelle in lotta contro quella istituzione disumana prima e politico dopo. Molti fatti si sovrappongono con racconti precedenti, altri sono nuovi, in particolare il suo incontro, lui schiavo in miniera, con un gruppo di turisti nobili che li affittarono per alcuni lavori nel loro accampamento.

Vede una cosa che lascia una segno indelebile: un nobile che si eccita sessualmente mettendosi un collare da schiavo. Questo genera il Gorgik una serie di pensieri su sesso, politica e potere: la sua conclusione (condividendo anche lui simili kink) è che non potrà mai essere libero dalla schiavitù finché esistono altri schiavi – da qui la sua campagna per l’abolizione dell’istituzione.

La sua lotta l’ha portato a diventare un uomo politico, a muoversi tra i nobili della Corte che prima combatteva, fino a diventare una emanazione dell’autorità, la stessa autorità che prima manteneva la schiavitù e che adesso ne regola l’abolizione. Ma come abbiamo visto in Neveryóna: Or, The Tale of Signs and Cities (nello specifico nell’incontro tra Prynn e Lady Keynes) altre forme di schiavitù sono messe in atto, come il salario. Gli ex schiavi lavorano per salari da povertà negli slum delle città dove si sono “liberamente” potuti spostare.

Lord Krodar è il nemico politico di Gorgik, ma è anche la persona attorno la quale egli ha modellato la sua personalità politica. Ora che il suo nemico è morto Gorgik è in crisi esistenziale.
“When the old definitions are gone, he [Gorgik] thought, how we grasp about for new ones! What am I, then? And what is this ‘I’ that asks? Yet to articulate them was to be aware of the split between them, between the mystical that asked them and the historical they asked of, between the unknowable hearing them and the determinable prompting them, so that finally he came to this most primitive proposition: only when such a split opened among the variegated responses to a variegated world was there any self.”
… in un brano che riesce a comprimere Cartesio, Hegel, Heidegger, Pascal, Kant e Sant’Agostino.

"The Tale of Rumor and Desire" è un mosaico di eventi della vita di Clodon, anche lui già incontrato in precedenza (XXX), di come sia diventato un criminale, un bandito, e di come si sia prostituito per un breve periodo al Ponte del Desiderio Perduto di Kholari, capitale di Neveryon. La serie di incontri porterà Clodon a fingere di essere Gorgik per rapinare i viandanti sulle strade dell’Impero – e finisce accoltellato da altri banditi. Questo racconto tratta del desiderio (desire) e della libido (lust), con Clodon che a un certo punto della sua vita incontra una donna che incarna tutti i suoi desideri sessuali, un’attrice che lo recluta per visitare una famosa cascata dove, forse, vivono ancora i draghi. Come Gorgik spiega a Udrog in “The Game of Time and Pain”:
“Tale tellers talk of lust as a fire that makes the body shiver as though cased in ice. But it’s not the fire or the ice that characterizes desire, but the contradiction between them. Perhaps, then, we should go on calling it a pause, a split, a gap – a silence that, on either side, though it seems impassable, is one that, while we are in it and it threatens to shake us apart, it seems we will never escape.”
"The Tale of Gorgik" ripropone la prima storia del ciclo, presente nel volume “Tales of Nevèrÿon”. Rileggendola dopo aver letto tutte le altre storie vediamo come sia ad essa collegata, con i collegamenti che ovviamente a una prima lettura non potevano essere noti, e che solo dopo 11 storie ambientate in quel mondo ci risultano finalmente chiari e (finalmente) vediamo come tutte le storie in qualche modo l’hanno intersecata, ne sono state matrici o conclusioni. Il ragazzo che Gorgik vede togliersi il collare (e che lo ispira a suo modo sia politicamente che sessualmente) è proprio Clodon da giovane, il quale per un breve periodo provò a prostituirsi come “schiavo” sul Ponte del Desiderio Perduto.


Rileggiamo anche il primo incontro di Gorgik con la schiavitù: in un magazzino trova degli schiavi commerciati da suo padre, quando ripassa nello stesso posto non li trova più. In quel momento gli viene l’idea che l’essere umano è un corpo che si può trasformare in merce.

Return to Nevèrÿon viene considerate da Delany il suo magnum opus. È la sua grande epica, ma al contrario di quella Omerica, l’eroe non è focus e punto di vista della narrazione. Gorgik è un eroe del quale si parla molto, su di lui circolano molte storie, ci sono troppi imitatori per poter stabilire definitivamente chi o cosa sia – non siamo più sicuri di cosa il simbolo Gorgik vada a indicare o cosa voglia dire. Lo possiamo solo vedere (spesso di fuggita) negli incroci con tutte le altre storie. Nella saga ricorre spesso il tema del tessere e dell’intreccio, e della relativa formazione di storie e racconti.


Si esiste quando ci si può raccontare. Ma le storie non devono solo essere raccontate, devono anche essere ricordate. E per essere ricordate devono essere scritte (nella saga vediamo troppo spesso come le storie orali cambino di bocca in bocca), ma non tutti possono farlo, solo i pochi con questo potere possono. Potere e linguaggio: non per niente la saga prende spunto da due “buchi neri narrativi” nella storia degli Stati Uniti: quella della schiavitù e quella relativa all’AIDS.
“Language is first and foremost a stabilizer of behaviour, thought, and feeling, of human responses and reactions – both for groups and for individuals. Language is a stabilizer among our responses to the world and to our problems in it”

lunedì 8 aprile 2024

La guerra che uccise Achille

Finito di nuovo in uno di quei periodi nei quali non mi interessa più nulla che sia successo dopo il crollo dell’Impero Romano d’Occidente, ho letto “The War That Killed Achilles” di Caroline Alexander.

Si tratta di uno studio dell’Iliade basato sulle conoscenze storiche (sia del periodo supposto della guerra, che di quello di stesura dell’opera), su testi e tradizioni contemporanee e antecedenti e sulla mitologia greca e ittita (la città di Troia era feudo dell’Impero Ittita).

Centrale è la figura di Achille, figlio di Peleo e della dea Teti. E qua ho trovato la cosa più interessante.

Achille è una figura anomala nell’epica antica. È figlio di Peleo, Re di Ftia in Tessaglia, regione ai confini della Grecia associata con streghe e luoghi selvaggi. Peleo era noto per le sua prodezze in battaglia e per accogliere nel suo regno persone in fuga dalla legge, criminali e profughi di varia provenienza. Achille è figlio di Teti, nereide discendente di Oceano; è una divinità alla quale molti altri dei devono sempre dei favori perché lei li ha aiutati nei momenti difficili.

Achille cresce nella regione più stregonesca della Grecia, e ha come tutore Chirone, che gli insegna l’arte medica.

Mettendo tutte queste cose assieme viene fuori Achille come figura sciamanica, anomala rispetto a tutti gli altri eroi che partecipano alla Guerra di Troia. E da altre fonti risulta che i suoi compagni Mirmidoni erano un branco di lupi mannari. Interessante, no?

(sembra che le parti inerenti Achille siano anche quelle più recenti. Chiunque (Omero?) abbia dato forma finale all’Iliade ha avuto un colpo di genio aggiungendo questo eroe).

È Achille stesso a chiedersi che ci faccia lì. Lo dice chiaramente: questi Troiani non mi hanno fatto niente, non ho niente a che fare con la Elena e Menelao e Paride, rischio di farmi ammazzare e prendo anche pesci in faccia da Agamennone?

Achille viene definito “Pelìde” in tutta l’Iliade, ma diventa il vero figlio di suo padre non combattendo eroicamente, ma solo quando accoglie con pietà Re Priamo, venuto a reclamare il corpo del figlio Ettore da lui ucciso – proprio come suo padre dava rifugio a fuorilegge e nemici.

È una nota di triste umanità con la quale finisce l’Iliade. NON finisce quando Achille uccide Ettore vendicando la morte del suo compagno Patroclo (e qua sta una delle tanti innovazioni di Omero rispetto alle opere epiche precedenti), ma con una serie di funerali (di Patroclo e di Ettore), e un Achille che pur avendo confermato se stesso come eroe si trova a cenare da solo, senza il suo compagno al suo fianco e, vedendo Priamo, scoppia a piangere pensando a suo padre lasciato solo in Ftia.

L’Iliade non glorifica la guerra, anche se, fa notare l’autrice, molte volte e in maniera capziosa è stata forzatamente interpretata in questo modo.

La nota finale sulla Guerra di Troia la troviamo nell’altra opera di Omero, l’Odissea, dove Ulisse (in incognito) ascolta le storie dell’assedio e:


Cosí dunque cantava l’insigne poeta. Ed Ulisse
struggeasi; e il pianto giú dal ciglio bagnava le guance.
Come una donna piange protesa sovresso lo sposo,
che per la sua città, pei suoi cittadini è caduto,
per tener lungi il giorno fatal dalla rocca e dai figli:
essa che cader morto lo vide, e dar gli ultimi guizzi,
amaramente piange, protesa sul corpo; e i nemici
di dietro, con le lance, le battono gli omeri e il collo,
e via schiava l’adducon, che soffra fatiche e dolori;
e a lei pel piú doglioso tormento s’emacian le guance:
cosí bagnava Ulisse di misero pianto le ciglia.

(traduzione del Romagnoli)

sabato 16 marzo 2024

How Language Began

How Language Began di Daniel Everett è un libro sull’origine del linguaggio.

L’autore, dopo una giovinezza burrascosa, si è convertito al cristianesimo ed è andato in Amazzonia a convertire la popolazione Piraha. Ne ha imparato la lingua, e dopo una crisi religiosa è diventato ateo, antropologo e linguista.

È un sostenitore della teoria “continua” dello sviluppo del linguaggio negli ominidi, ovvero una serie successiva di aggiunte e prassi che si sono solidificate nel corso di millenni fino a formare il linguaggio come lo conosciamo oggi.

Questo pone Everett in opposizione alla teoria “discreta” del più noto Chomsky, cosa che gli ha anche procurato un certo numero di nemici e hater online – sembrerebbe impossibile ma simili cose succedono anche in linguistica.

La critica che Everett muove a Chomsky è che quest’ultimo tratta il linguaggio come un superpotere, che gli homo hanno acquisito a un certo punto della loro evoluzione grazie a una mutazione genetica. Un po’, prende in giro l’autore, come degli X-Men.

Everett rifiuta la concezione Chomskiana che il linguaggio sia solo una grammatica, infatti lo vede più come uno strumento culturale che si è andato affinando coll’evolversi della cultura umana.

Onestamente, il libro è godibile anche senza entrare nei dettagli della sanguinosa diatriba continuità/discrezione che ha mietuto molte vittime su entrambi i fronti di questa guerra civile tra linguisti. Vediamo la nascita dei primi ominidi, le imprese dell’homo herectus che sarebbero state impossibili senza una forma di comunicazione, il funzionamento del cervello e degli organi che permettono di concepire e usare il linguaggio.

Purtroppo gli eoni passati tra quando i primi ominidi hanno iniziato a parlare e oggi rende molte di queste considerazioni solamente teoriche. I fossili non danno molte indicazioni sulla struttura del cervello (e della laringe) dei nostri più lontani progenitori e molto è lasciato alla speculazione.

Vita e morte delle grandi città americane

Penso che le città siano come degli organismi viventi, e alcuni tra i più interessanti che si possano trovare sul nostro pianeta. Jane Jacobs, antropologa e scrittrice, condivide questa mia visione delle città.

Il suo saggio più famoso, Death and Life of Great American Cities (del 1961), prende in considerazione le più grandi città americane, e si chiede come mai alcune siano vivaci mentre altre sviluppano slums e zone morte.

I concetti espressi da Jacobs riguardano sopratutto le città americane, anzi per la maggior parte sono derivati dall'osservazione dei quartieri di New York, e quindi potrebbero non applicarsi ovunque, ma sono comunque degli strumenti con i quali studiare i complessi urbani.

Qual è la caratteristica di una Grande Città? Per Jacobs è l'incontro continuo di persone sconosciute (stranieri, turisti, ma anche condomini). L'autrice quindi inizia le sue considerazioni dal marciapiede, il vero luogo nel quale si hanno gli incontri non voluti con gli sconosciuti. Non la strada dove passano le automobili o l'interno degli edifici, ma proprio i marciapiedi.

Mettendo al centro il marciapiede dove l'abitante cammina, Jacobs mette in secondo luogo il ruolo dell'automobile: per lei traffico e problema di parcheggi sono problemi derivati dalla cattiva gestione della vita sul marciapiede. Idea che già la pone in contrasto con gli architetti e urbanisti dell'epoca che pensavano di sviluppare la città avendo il traffico in mente come prima cosa.

Il marciapiede, come le teorizza Jacobs, deve essere un posto sicuro perché sorvegliato a vista da chi lo vive (proprietari di negozi e gente che si affaccia alla finestra); deve essere vissuto continuamente, ovvero ci devono essere abbastanza attività da garantire un flusso di persone dalla mattina alla sera: Jacobs è favorevole ai rioni a più destinazioni d'uso, dove ci sia sempre qualcosa aperto che attiri delle persone. Le persone che vivono il marciapiede devono poter godere allo stesso tempo della privacy e della possibilità di connessioni che questo offre. Infine il marciapiede deve essere un posto sicuro dove i bambini possano giocare.

Contrariamente all'abitudine italiana il centro della città per Jacobs sono i marciapiedi, e non le piazze, che l'autrice pone assieme ai parchi pubblici un gradino sotto nella scala di preferenze.

Un marciapiede che è una comunità di persone con un forte interesse a mantenere l'ordine e la sicurezza. Ma come si raggiunge questo scopo?

Jacobs propone quattro strumenti urbanistici che secondo lei devono essere usati assieme:

1) I quartieri devono avere più di una funzione primaria. Ci deve essere più di un motivo per le persone per visitare un quartiere, e il quartiere deve attrarre persone diverse (per ceto, lavoro, etc...) per motivi diversi. Una molteplicità di funzioni primarie porta allo sviluppo di una sana rete di funzioni secondarie (per esempio ristoranti per il pranzo per gli impiegati degli uffici, ma che possano essere attivi per servire la cena a chi va a teatro).

2) Gli isolati devono essere piccoli, ovvero la strada deve essere interrotta quanto più possibile da incroci con altre strade. Questo permette al pedone una maggiore varietà di scelta di percorsi, ed evita di isolare due strade, cosa che rischia di generare piccoli mondi a se stanti ed economicamente chiusi. Attività secondarie su una strada possono così servire gli utenti di più attività principali.
Più incroci rende il traffico più lento cosa che secondo l'autrice sfavorisce l'uso dell'automobile.

3) Ci devono essere edifici vecchi, o almeno nello stesso rione devono esserci edifici di varie età. Edifici più vecchi costano di meno permettendo il sorgere di più attività e aumentare quindi i motivi per vivere il quartiere. Qua è forse dove la Jacobs ha sbagliato di più, perché sul lungo termine edifici vecchi aumentano di valore respingendo i ceti più poveri. È un fenomeno complesso: se volete approfondirlo leggete il capitolo a esso relativo nel libro.

4) Nel quartiere ci deve essere una concentrazione sufficientemente alta di persone da sostenere economicamente i punti sopra. Qua il discorso fatto nel libro temo sia applicabile solo agli Stati Uniti, anzi probabilmente solo a New York.

Jacobs ha pubblicato questo libro nel 1961, e molte cose sono cambiate da allora. Non tutti i concetti espressi sono ancora applicabili, ma su tante cose l'autrice ha avuto ragione. Per esempio, ha previsto il degrado totale di Detroit che sarebbe avvenuto nei dieci anni successivi.

Sopratutto, il libro è un attacco contro un certo tipo di urbanistica calato dall’alto, con progetti che poco tengono conto delle vere esigenze e dei veri comportamenti delle persone.

mercoledì 31 gennaio 2024

La Nave dei Folli

Può l’arte ispirare l’arte?

Noi del CIF abbiamo provato a rispondere a questa domanda universale con un lavoro multimodale (e non multimediale).

Sei racconti ai limiti dei generi per rappresentare le oscure pulsioni che si agitano negli abissi dell’animo umano. E quale miglior soggetto de “La nave dei folli” di Hieronymus Bosch?

Con questo ultimo lavoro, a suo modo sperimentale, il “Collettivo Italiano Fantascienza” cambia pelle e si trasforma in “Collettivo Immaginario Fantastico”, per urlare a gran voce la mutata necessità di percorrere nuove strade espressive, ai confini del fantastico.

Nel libro, in uscita  per Delos Books, non trovate solo racconti ma anche contributi “diversi” per ampliare gli orizzonti di fruizione.

Grazie di cuore agli autori e alle autrici che hanno creduto in questo progetto: Emiliano Maramonte, Simonetta Olivo, Axa Lydia Vallotto, Lorenzo Davia, Maico Morellini, Damiano Lotto e Roberto Furlani e, naturalmente, l’editore, Silvio Sosio per averci supportato e sopportato.

Emiliano Maramonte ha avuto l’onore di coordinare e supervisionare la lavorazione.

Contiene il mio racconto "La Nave dei Morti", ambientato a Thanatolia.

Link per l'acquisto su Delos Store e Amazon.

lunedì 29 gennaio 2024

giovedì 25 gennaio 2024

Starboard Wine

Starboard Wine è stato pubblicato nel 1983 ed è una raccolta di saggi e lettere scritte da Samuel Delany nella seconda metà degli anni ‘70 riguardanti la letteratura di fantascienza.

Il sottotitolo è More Notes on the Language of Science Fiction, rendendo questo libro una specie di sequel o aggiornamento del volume del 1977 intitolato The Jewel-Hinged Jaw: Notes on the Language of Science Fiction. Inoltre i saggi sono stati scritti nello stesso periodo in cui Delany scriveva la sua monografia sul racconto Angouleme di Thomas Disch (The American Shore). In Starboard Wine i riferimenti a questi due testi sono numerosi.

I saggi riguardano vari aspetti della fantascienza, dalla sua storia al suo futuro ai profili di alcuni autori che Delany riteneva notevoli.

Delany non crede, contrariamente a molti, che la fantascienza sia nata con Frankenstein di Mary Shelley, ma con le riviste degli anni 20 e 30 di Gernsback . Due sono le motivazioni portate a sostegno di questa sua tesi. La prima è che il romanzo non si discostava come temi e stile da altri romanzi dello stesso periodo che non sono riconosciuti come fantascienza. La seconda è che tra i vari testi del 1800 riproposti dalle medesime riviste non compare Frankenstein, mentre appaiono altri precursori quali Wells e Verne.

L’unicità della fantascienza, sostiene Delany, si è fatta notare in quegli anni. Ma in cosa consiste questa unicità? Delany confronta fantascienza e letteratura, partendo da domandi quali: La fantascienza è letteratura? Delany sostiene di no – fantascienza e letteratura si leggono in maniera diversa.

"I prefer to see the differences between science fiction, fantasy, and mundane fiction largely as the differences in the conventions, interpretations, questions, expectations, and responses the various texts encourage the reader to bring to the reading"

Delany vede la fantascienza non come un genere letterario ma come un protocollo con il quale leggere certi testi (non necessariamente testi di fantascienza, come Cheap suggerisce di fare ai suoi studenti). È una lingua particolare dove le cose hanno significati leggermente diversi da quelli che intendiamo nella letteratura quotidiana (“mundane”). Ed è proprio in queste differenze tra l’ambientazione descritta nella fantascienza e il nostro mondo reale che secondo Delany sta la forza della fantascienza. Mentre ogni frase che si può trovare in un testo di “mundane fiction” può avere ancora senso se si legge in un testo di fantascienza, non vale il contrario: questo è in indizio che non si può includere la fantascienza nella letteratura, ma che il loro rapporto è più complicato.

"The writer of mundane fiction tells a story set against a more or less vividly evoked section of the given world... and these conventions... have far more to do with other works of fiction than with anything "real". The SF writer, however, creates a world"

C’è il resoconto di un esperimento interessante, dove Delany legge parola per parola un racconto di fantascienza a una persona che non ama, capisce e apprezza il genere, per studiare momento per momento cosa passi nella testa del lettore di letteratura “seria”. È un approccio al testo lettera per lettera che non si vede spesso e dà dei risultati interessanti.

"Science fiction is not about the future; it uses the future as a narrative convention to present significant distortions of the present"

Cinque saggi sono dedicati a Robert Heinlein, Joanna Russ, Theodore Sturgeon e Thomas Disch (Disch I e Disch II), dove vengono messi in rilievo pregi e difetti di questi quattro autori. Sebbene separato dal pensiero politico, Delany apprezza Heinlein per il modo con il quale ha creato e fissato i tropi della fantascienza, dal viaggio nel tempo all’esplorazione spaziale.

Quando Delany scrisse Starboard Wine la fantascienza scritta era in pieno boom con un aumento esponenziale dei titoli pubblicati rispetto agli anni precedenti. Nei saggi troviamo un sano ottimismo sul futuro del genere, sostenuto da una solida base teorica che fa riferimento ai teorici francesi (soprattutto Derrida) e dove la fantascienza viene vista come un linguaggio e, di conseguenza, qualsiasi studio del genere diventa uno studio della sua grammatica e delle sue regole linguistiche.

È un testo di 40 anni fa e molto probabilmente molte tesi sono state superate dalla critica dei decenni successivi, ma resta un punto fondamentale per capire la storia della fantascienza e la sua evoluzione.