L’autore, dopo una giovinezza burrascosa, si è convertito al cristianesimo ed è andato in Amazzonia a convertire la popolazione Piraha. Ne ha imparato la lingua, e dopo una crisi religiosa è diventato ateo, antropologo e linguista.
È un sostenitore della teoria “continua” dello sviluppo del linguaggio negli ominidi, ovvero una serie successiva di aggiunte e prassi che si sono solidificate nel corso di millenni fino a formare il linguaggio come lo conosciamo oggi.
Questo pone Everett in opposizione alla teoria “discreta” del più noto Chomsky, cosa che gli ha anche procurato un certo numero di nemici e hater online – sembrerebbe impossibile ma simili cose succedono anche in linguistica.
La critica che Everett muove a Chomsky è che quest’ultimo tratta il linguaggio come un superpotere, che gli homo hanno acquisito a un certo punto della loro evoluzione grazie a una mutazione genetica. Un po’, prende in giro l’autore, come degli X-Men.
Everett rifiuta la concezione Chomskiana che il linguaggio sia solo una grammatica, infatti lo vede più come uno strumento culturale che si è andato affinando coll’evolversi della cultura umana.
Onestamente, il libro è godibile anche senza entrare nei dettagli della sanguinosa diatriba continuità/discrezione che ha mietuto molte vittime su entrambi i fronti di questa guerra civile tra linguisti. Vediamo la nascita dei primi ominidi, le imprese dell’homo herectus che sarebbero state impossibili senza una forma di comunicazione, il funzionamento del cervello e degli organi che permettono di concepire e usare il linguaggio.
Purtroppo gli eoni passati tra quando i primi ominidi hanno iniziato a parlare e oggi rende molte di queste considerazioni solamente teoriche. I fossili non danno molte indicazioni sulla struttura del cervello (e della laringe) dei nostri più lontani progenitori e molto è lasciato alla speculazione.
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