Finito di nuovo in uno di quei periodi nei quali non mi interessa più nulla che sia successo dopo il crollo dell’Impero Romano d’Occidente, ho letto “The War That Killed Achilles” di Caroline Alexander.
Si tratta di uno studio dell’Iliade basato sulle conoscenze storiche (sia del periodo supposto della guerra, che di quello di stesura dell’opera), su testi e tradizioni contemporanee e antecedenti e sulla mitologia greca e ittita (la città di Troia era feudo dell’Impero Ittita).
Centrale è la figura di Achille, figlio di Peleo e della dea Teti. E qua ho trovato la cosa più interessante.
Achille è una figura anomala nell’epica antica. È figlio di Peleo, Re di Ftia in Tessaglia, regione ai confini della Grecia associata con streghe e luoghi selvaggi. Peleo era noto per le sua prodezze in battaglia e per accogliere nel suo regno persone in fuga dalla legge, criminali e profughi di varia provenienza. Achille è figlio di Teti, nereide discendente di Oceano; è una divinità alla quale molti altri dei devono sempre dei favori perché lei li ha aiutati nei momenti difficili.
Achille cresce nella regione più stregonesca della Grecia, e ha come tutore Chirone, che gli insegna l’arte medica.
Mettendo tutte queste cose assieme viene fuori Achille come figura sciamanica, anomala rispetto a tutti gli altri eroi che partecipano alla Guerra di Troia. E da altre fonti risulta che i suoi compagni Mirmidoni erano un branco di lupi mannari. Interessante, no?
(sembra che le parti inerenti Achille siano anche quelle più recenti. Chiunque (Omero?) abbia dato forma finale all’Iliade ha avuto un colpo di genio aggiungendo questo eroe).
È Achille stesso a chiedersi che ci faccia lì. Lo dice chiaramente: questi Troiani non mi hanno fatto niente, non ho niente a che fare con la Elena e Menelao e Paride, rischio di farmi ammazzare e prendo anche pesci in faccia da Agamennone?
Achille viene definito “Pelìde” in tutta l’Iliade, ma diventa il vero figlio di suo padre non combattendo eroicamente, ma solo quando accoglie con pietà Re Priamo, venuto a reclamare il corpo del figlio Ettore da lui ucciso – proprio come suo padre dava rifugio a fuorilegge e nemici.
È una nota di triste umanità con la quale finisce l’Iliade. NON finisce quando Achille uccide Ettore vendicando la morte del suo compagno Patroclo (e qua sta una delle tanti innovazioni di Omero rispetto alle opere epiche precedenti), ma con una serie di funerali (di Patroclo e di Ettore), e un Achille che pur avendo confermato se stesso come eroe si trova a cenare da solo, senza il suo compagno al suo fianco e, vedendo Priamo, scoppia a piangere pensando a suo padre lasciato solo in Ftia.
L’Iliade non glorifica la guerra, anche se, fa notare l’autrice, molte volte e in maniera capziosa è stata forzatamente interpretata in questo modo.
La nota finale sulla Guerra di Troia la troviamo nell’altra opera di Omero, l’Odissea, dove Ulisse (in incognito) ascolta le storie dell’assedio e:
Cosí dunque cantava l’insigne poeta. Ed Ulisse
struggeasi; e il pianto giú dal ciglio bagnava le guance.
Come una donna piange protesa sovresso lo sposo,
che per la sua città, pei suoi cittadini è caduto,
per tener lungi il giorno fatal dalla rocca e dai figli:
essa che cader morto lo vide, e dar gli ultimi guizzi,
amaramente piange, protesa sul corpo; e i nemici
di dietro, con le lance, le battono gli omeri e il collo,
e via schiava l’adducon, che soffra fatiche e dolori;
e a lei pel piú doglioso tormento s’emacian le guance:
cosí bagnava Ulisse di misero pianto le ciglia.
(traduzione del Romagnoli)
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