Il libro si presenta come una serie di dichiarazioni rilasciate da un non meglio precisato gruppo di dipendenti di un non meglio precisato posto di lavoro. Nel corso della lettura ci si rende conte che ci sono dipendenti umani (nati e mortali) e umanoidi (artificiali e immortali), e che l’ambiente di lavoro è un’astronave, la Six Thousand Ship.
Scopo del datore di lavoro è scoprire l’effetto che un certo numero di “oggetti” hanno sui dipendenti. Gli oggetti sembrano essere stati prelevati da un pianeta visitato; gli umani e gli umanoidi vi si affezionano fino a pregiudicare l’efficienza del loro lavoro.
La storia è tutto sommato convenzionale, quasi banale, ma raccontata in maniera obliqua, quasi a dover cercare tutti gli indizi per capire cosa stia succedendo, ma in fondo è più importante farsi prendere dal flusso di coscienza e dalla poesia del testo che cercare razionalizzazioni.
Il libro è nato da una serie di oggetti che apparivano in una mostra dell’artista Lea Guldditte Hestelund. L’artista chiese a Olga Ravn di commentare con dei testi gli oggetti e l’autrice pensò a reperti alieni raccolti su un altro pianeta.
Personalmente mi ha ricordato il film Aniara del 2018 con le sue ambientazioni dal freddo design “nordico” (il film è ambientato su un’astronave ma è stato girato in un centro commerciale svedese) e i Tropismes di Nathalie Sarraute. In biologia i Tropismi sono movimenti e crescite spontanee degli organismi in risposta a stimoli ambientali esterni, che è un po’ quello che Ravn va a studiare quando mette umani e umanoidi a contatto con gli Oggetti, finendo per parlare di cosa ci rende umani, e prendere in giro aziendalismo, capitalismo e transumanesimo.
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